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La giardiniera incostante

Piantina di timo e bambolina giapponese Io non so niente di giardinaggio. Ma proprio niente. Per questo vorrei che la mia vita gli assomigliasse un po’ di più. Al giardinaggio.
Dicevo, non so proprio niente niente eppure ogni volta che arrivo in una nuova casa prima o poi viene il momento: e se mi prendessi cura di qualche pianta? Quando arrivai in Inghilterra ho persino comprato dei bulbi pensando che un caotico giardino all’inglese facesse per me: i fiori non spuntarono mai. Prima tenevo le mie tre piantine sul davanzale davanti alla porta del mio appartamento parigino, perché all’interno non c’era abbastanza spazio. Un giorno scoprii davanti alla mia porta la vecchina del terzo piano prendersi cura delle mie piante di nascosto: “le ho viste così malmesse, pensavo che fossi partita da tempo”. Ero in casa. Da quel giorno le ho affidato le mie piante che fossi in aereo o solo sotto la doccia e quando ho lasciato Parigi gliele ho regalate, o almeno i loro amabili resti.

Insomma, per dire quanto io non ne sappia niente. Però mi piace sempre di più occuparmi di piante. Quello che mi piace è che lo faccio con una convizione che sembra che io sappia tutto, con una sicurezza che sembra dire: io so cosa sto facendo, anche se il mio unico attrezzo è un cucchiaio da minestra. Dieci, venti giorni dopo forse non spunterà niente, e la maggior parte delle volta non spunta niente. La maggior parte delle altre volte ciò che è gia spuntato muore.
Ma talvolta qualcosa spunta e talvolta l’origano dimenticato durante il nostro inverno africano ritorna in vita. Così nel giardinaggio qualunque cosa bella è un regalo, qualunque cosa brutta un incidente già dimenticato.
Siccome la vita io l’affronto proprio al contrario, mi chiedo se non debba darmi al giardinaggio. Ma solo così, senza mai imparare nulla.

An ordinary day

So, how was your day today? Well, it was not exactly today- it was two or three weeks ago- but nothing I write here is entirely true, remember?

Not too early in the morning I wake up in a sunny Leipzig. I wave good-bye to Orso with very humid eyes: we’ll see each other again in two weeks. And we are only ten days into the European commute that we like to call a marriage.
In Plagwitz I pass by bike by the most beautiful care-home I have ever seen: I wonder whether they accept residents under 30… because I’d definitely love to live in one of the apartments with the view on the canal. I get to work (yes, it is funny and -forgive me for the word- cool, but I’m still making  a job out of telling stories) crossing not one but two parks: I could definitely get used to it. But there is no time.
I get my lunch from a Syrian takeaway, hipster German style: a lot of vegetables and less fat. I’m still not used to it.

I smell the garlic sauce and the grilled chicken and I turn back two years in time: I am in Place Monge, Paris,  and feel that loneliness that does not feel like being alone.

I also think about how uncomfortable I am with the past and what it is all about. Orso says that I always behave as if I was on my guard when I talk in the past tense. I should dig the reasons why but basically: I don’t feel at ease because it’s about another woman, most of the time a girl, I don’t particularly like now.

On my way to the train station I miss the right tram and I have to get on two others trying to make up for my errors: a lot of stress while dragging a too big pink suitcase.

I learnt how to force myself to sleep on transports so the train journey from Leipzig to Berlin passes quickly. Everytime the train goes through  Lutherstadt Wittenberg I can’t help wondering whether Luther’s theses were 95 and everytime I reach home -wherever it is- I’ve already lost interest. Or maybe I don’t want to spoil the only passtime that does not make me sick on transports: having conversations with myself and digging my memory about useless information.

Off the train I jump on the bus to Berlin Tegel airport and hit all ankles I can find in the small corridor of the bus with my too big pink suitcase . I don’t do it on purpose and I am -even if I bit sleepy- pretty so I am forgiven rather easily. Yes, life is unfair.

I get to wait for my flight in the best lounge of the airport: and yes, it includes free food and tv. This is all thanks to Orso, who’s not a billionaire banker but he knows his way through airline promotions like no one.

My plane is the stereotype of a flight to London:  loads of skinny ties and Blackberries. Anyway, finally I have a copy of the Independent on my lap and I hope that the flight is calm enough so that I can read instead of spending my time recalling all the names of dog breeds I used to know when I was nine.

At Heathrow airport there is a bus waiting for me, and I can finally eat my Leipzig-made sandwiches and think about how many German regions I can remember: coach trips really make me sick. Two hours and a definitely different landscape later I am back to the very unlikely place  where exactly one year ago I decided to go to turn my life upside down (and therefore create another past version of myself I would feel uncomfortable with, I guess).

I walk home, I need some fresh air and the Southern coast of England is fresh on a late summer evening, even cold actually, but I put some extra layers on before the passport control at the airport: it’s not the first time I make this complicated trip. It is actually the last one, I think with relief and a point of regret.

Bike-tram-train-plane-coach and then… my own feet: it took so many different transports and now I am in bed with a fluffy raccoon (that’s really another whole story, that of the raccoon -a soft-toy, not a living animal).

In bed I read the French translation of a book on the life-changing trip to Italy of a famous German who lived in Leipzig as a young man: I drift into sleep thinking I am not doing anything new (well, except for the company of the fluffy raccoon).

I know, this post is very private, more private than you’d want it to be, more private than I -and certainly Orso- would like it to be. But my life had overtook my writing for a bit, so I thought that writing had to strike back and take whatever was there.

By the way, I forgot to ask, how was your day?

Take a leap! And a piece of cake

E’ di nuovo quel momento. Il momento in cui poter fare tutto. Il momento in cui hai preparato la valigia e bisogna partire. Io oggi, dopo aver consegnato l’ultimo pezzo della mia tesi, non riesco a combinare niente di sensato, a meno che non si consideri sensato mettersi al passo con le serie tv che sono andate in onda quando avevo di meglio da fare. Oggi è di nuovo quel momento tanto atteso in cui finalmente hai tutto il tempo per scrivere e da oggi in poi ogni giorno scriverai qualcosa, neanche fosse settembre in anticipo. Oggi è il momento in cui l’ispirazione se n’è andata e sembra per sempre.

Io ho deciso un anno fa: sono venuta in questa città comoda dove sembra sempre leggermente autunno anche col bel tempo per imparare a raccontare le storie, per commettere gli errori giusti. E ci sono riuscita: non saprei giudicare altrimenti il fatto di aver cominciato a lavorare prima di aver preso quest’ennesima laurea. Insomma, magari te lo aspetti da un ingegnere, ma meno da una giornalista in un paese straniero. Però, ricorda, non ho mai detto di non essere brava. Il lavoro di quest’anno mi ha  portata su un nuovo trampolino, anzi un trapezio da circo. Non ho avuto dubbi salendo. Adesso però ho paura. Ho paura dei traslochi che verranno, delle case da trovare in tre-quattro nuove città, dei lavori da cercare, dei cento no e due forse, dei complimenti senza un seguito, di non sapere come va finire.
Leggo sempre un po’ la fine dei libri, ma non in caso muoia prima come Billy Cristal in Harry ti presento Sally. Sfoglio qualche pagina alla fine del libro per avere un’idea che finisca. Non bene o male, semplicemente sapere che finirà in qualche modo mi rassicura.
Take a leap, dicono, the net will appear. Fai il salto e la rete apparirà sotto di te.

Questo è il momento in cui non si fa neanche la spesa, figurati una torta. La differenza oggi è che sapevo che sarebbe arrivato, quel momento. Così, ho cucinato in anticipo. E la rete non si vede oggi e probabilmente non si vedrà neanche domani. Però, in qualche modo, ad un certo punto appare.

Potrò presto migrare verso centoeunaricettaalrabarbaro.net di questo passo. Ma i desideri di compleanno non si discutono, soprattutto quelli di Orso.

Crostata di rabarbaro e fragole

Torta al rabarbaro e fragole con sfondo di regali di compleanno

Ingredienti
Pasta frolla:
250g farina più un po’.
2 tuorli
2 cucchiai zucchero a velo
2 cucchiai acqua
sale

Ripieno: 300g rabarbaro sbucciato
10 grandi fragole
1 uovo e 1 tuorlo
150g zucchero
200ml panna
zucchero vanigliato

Preparare la pasta frolla mescolando farina e zucchero a velo. Aggiungere il burro ammorbidito (non sciolto! Non fare come se fosse la prima volta che prepariamo una pasta frolla!). Versare l’acqua e i tuorli nel composto a fontana. Ma perché poi si dice a fontana? La montagna di farina e burro con il buco in mezzo assomiglia molto di più ad un vulcano!

Ingredienti per la torta rabarbaro e fragole di compleanno

Impastare con la punta delle dita (non col palmo perché il calore delle mani scioglie il burro). Formare una palla, avvolgerla nella pellicola trasparente e metterla in frigo. Lo so, la faccio facile io. Se la pasta fosse troppo molle e appiccicosa aggiungere farina o zucchero. Se fosse troppo dura e farinosa aggiungere acqua. Dovrebbe avere una consistenza tale da poterla lanciare al proprio aiuto cuoco. Che poi nel mio caso è sempre Orso. La palla di pasta deve restare in frigorifero per almeno un’ora, ma due sarebbero meglio.

Far marinare il rabarbaro a pezzetti e le fragole anche loro a pezzetti con 50g di zucchero. Mescolare la panna, l’uovo, il tuorlo, 100g di zucchero e lo zucchero vanigliato.

Stendere la pasta in una teglia imburrata apribile. Versare la frutta sul fondo e ricoprire con la crema. Infornare a 180° per 50 minuti. Lo so è tanto, però nel frattempo si possono impacchettare i regali o fare la ceretta, dipende dal compleanno.

Torta al rabarbaro e fragole pronta per essere mangiataProbabilmente ci saranno refusi: tutto questo è stato scritto ascoltando una radio francese che trasmette musica inglese. Oggi va così.

Al quel lettore, fra i miei venticinque, cui siano venute strane idee: io sono molto più giovane di Orso. 

Love letters in London

Love letters in Shoreditch, inserito originariamente da Lucy in giro.

After admiring A Love letter for you murals, I finally spotted a similar one myself in London.

I think we should move to Shoreditch.

An education

Soon in English, I promise! (and apparently I have to, if I want to graduate!)

L’ho scritto poco tempo fa sotto un articolo e video del Fatto Quotidiano postato da un’amica che ne sa sempre una in più di me: Abbiamo sbagliato. Siamo stati la generazione neanche precaria, come quelli di pochi anni più vecchi, ma la generazione dello stage. E abbiamo sbagliato.

In altri Paesi funziona così: in Francia lo stage deve far parte del percorso universitario, in Inghilterra pure, e si può lavorare solo tre settimane in stage non retribuiti, e solo questo possono chiedere le università. Altrimenti ci sono le traineeship o internship, in cui si viene pagati.
In Italia almeno per ora, almeno in pratica, non c’è limite.

Se due/tre settimane per mettere in pratica un lavoro nuovo, con un mentore, valgono più di uno stipendio, e a qualunche età, tre-sei mesi sono un insulto, anche a diciott’anni.

E come si fa esperienza? Mi chiedi.

E come si faceva prima? Ti rispondo arrabbiata con una domanda. Si lavorava, con il minimo dello stipendio e poi si andava avanti.

Ultimamente mi è stato detto che nelle belle riviste italiane, e ce ne sono di belle, con articoli e foto che fanno invidia anche alla stampa anglosassone, fanno stage non pagati di sei mesi e che è un’assurdità chiedere passarci dei periodi più brevi. O di essere pagati.

Forse è perché all’inizio abbiamo avuto tutto che non sappiamo come chiedere quello che ci spetta? Quindi io vengo qualche settimana, metto in pratica, tu mi correggi, e magari se ci troviamo bene resto. Però a quel punto mi paghi.

Quindi evitate di dirmi che sia tratta di una collaborazione non retribuita, che c’è una scrittrice altrettanto brava e più disperata dopo di me. La mia risposta è no, punto.  E se ti risponde di sì, beh, non è altrettanto brava, perché non sa il suo lavoro quanto valga.

Cosa ne pensate? Qual’è stata la vostra esperienza?

Ah, un’aggiunta, un modo di dire inglese che mi fa ridere e si presta alla situazione:  “if you pay peanuts, you get monkeys”

Birthday Dorset apple cake

Ci sono due momenti decisivi due volte l’anno. Uno e’ settembre per guardare avanti.  Uno e’  il compleanno, per guardare indietro.
Capodanno si sa, e’ una finta.
Dopo aver guardato avanti, e di tanto, con una nuova casa in un nuovo paese ed una nuova professione ora, e’ il mio turno per guardare indietro.

La prima considerazione: un anno non e’ bastato.  Quello di cui mi rendo conto, con un anno e tanti sbagli in piu’ e’ che sbagliando, sto cominciando a prendere le decisioni giuste.

Non mento, forse e’ perche’ mi sono ritirata dal lavoro.
Dici? Allora per spirito scientifico provo a rientrarci subito, mando le prime candidature anche se ho ripreso a studiare da sole sei settimane. E una settimana dopo ho la prima mezza risposta positiva. Trovare un nuovo lavoro e’ spesso una questione di fiducia in se stessi, no?

In inglese c’e’ un modo di dire “you can’t have your cake and eat it too”  che si traduce piu’ o meno nella scelta fra la botte piena e la moglie ubriaca.
Orso pero’ lo usa diversamente. Un giorno circa un anno fa mi ha detto di smettere di aspettare, di cuocere la mia torta e mangiarmela.

Cosi’ per il mio compleanno mi sono fatta una torta e me la sono mangiata. Auguri: a me

Dorset apple cake di compleanno




Questa torta e’ apparentemente uno dei tesori locali. Ho intervistato diversi chef televisivi per un progetto video (fra poco su questi schermi!) e quasi tutti hanno menzionato la dorset apple cake come il loro piatto preferito. Cos’ha di speciale? La lavorazione di burro, zucchero e scorza di limone. Ok, la quantita’ di burro e zucchero, basically.


Ingredienti

  • 230gr di burro da ammorbidire (piu’ un po’ per la teglia)
  • 500gr di mele, la ricetta originale usa le Bramley apples, ma io ho usato della piccole mele rosa, tipo pinklady.  Perche’? Non mi hai sentito? Perche’ sono delle piccole mele rosa! (Fra l’atro, le mele pinklady si chiamano cosi’ per via di Grease? Io me le immagino appese al loro albero con i loro giubbottini e i capelli bigodinati).
  • Scorza di un limone (quindi lavarlo molto bene, dice Orso)
  • 230gr di zucchero bianco (gli inglesi usano tante qualita’ di zucchero diverso per una stessa torta, io ne uso solo due per il momento, primo perche’ e’ antieconomico comprarne troppe e poi perche’ Orso dice che compro e mangio troppo zucchero: ma “troppo zucchero” esiste?)
  • 3 uova
  • 230 gr di farina (anche qui, mille tipi per ogni torta, non sono d’accordo: trova una farina di tipo 00 o simili e usa quella)
  • Lievito, mezza bustina du quello che si trova in Italia in bustine da 16 gr (15gr e’ la quantita’ per 500gr di farina, ricorda!) o due cucchiaini di baking powder inglese
  • Un cucchiaio di zucchero di canna


Riscalda il forno  a 180 gradi (ho un forno a gas! Che donna d’altri tempi!) e approfittane per metterci la teglia con tutto il burro dentro per quanche minuto. Il burro si ammorbidira’ -non deve sciogliersi!- e potrai prima imburrare la teglia con il panetto tiepido e poi usare il burro ammorbidito. Lavora con la frusta elettrica o a mano il burro con lo zucchero e la scorza di limone. Viene fuori una spuma deliziosa e assassina.

Aggiungi, intervallandole, uova e farina (un uovo , un po’ di farina etc.) Gia’ che hai la farina fra le mani, infarina la teglia facendo assorbire il burro.
Fai  sbucciare e  tagliare a cubetti le mele nel frattempo (anche a questo serve una relazione seria).

Aggiungi il lievito e poi le mele a cubetti. Versa la pasta nella teglia imburrata e infarinata. Getta a pioggia lo zicchero di canna, un cucchiaio piu’ un po’, soprattutto se nessuno ti controlla mentre lo fai.

Inforna a 180 gradi (non trovo il simbolino dei gradi sulla tastiera!) per circa 40 minuti. Non lasciare mai la torta da sola! Non lo diro’ mai abbastanza: nessuna torta si cuoce da sola, i gradi possono essere 175 o 184 nel tuo caso e i minuti quarantadue. Controlla sempre.

Nel frattempo accendi il computer, controlla che il telefono sia carico e attendi gli auguri. Ti tocchera’ parlare di come dieci anni fa avevamo 18 anni, ma anche pensare a che facevi un anno fa a quest’ora.

Lascia raffreddare e  congratulati per tutti gli anni passati (anche quelli sbagliati!) con questa torta soffice, dolce e deliziosa.  Il giorno del compleanno si ha diritto ad essere egoisti, e a non condividere.  Oppure inventa una scusa, di’ che ti piacerebbe sentirti speciale, e che la condivideresti, certo ma non con tutti, ecco. Tipo io per essere tranquilla ho detto che l’avrei condivisa solo con chi avesse fatto un viaggio transalantico (dona ferentes) per mangiarla.

Mannaggia, lo ha fatto.

Il giorno del compleanno dura sempre troppo poco, e la cosa ogni anno mi angoscia. La torta pero’, coperta con un po’ di alluminio o in un contenitore ermetico e messa in frigo per via delle mele, si conserva per un po’. Quanto? Non lo so, non ho mai fatto in tempo a scoprirlo.

 

Mi scuso con Anna che voleva una ricetta di torta un po’ meno calorica. Forse un altra volta. Forse.

Da capo: una vita in scatola

Ho un giardino inglese, una vasca bagno inglese, una porta sul retro inglese, una vicina di casa lettone ed uno indiano: abito in Inghilterra. Come ci sono arrivata è un’altra avventura che comprende cinque anni da inscatolare e mettere in macchina, guidare dal lato sbagliato (ehm, opposto!) e ricominciare tutto da capo.

Ricomincio nel modo più romantico: prendendo una nave. La nave salpa ed io con lei lascio la Francia forse non per sempre ma certo definitivamente.

Del rocambolesco trasloco posso dire: ci si rende conto di quanto poco ci importi delle cose che abbiamo solo quando  si deve portarle per quattro piani di scale. La prossima volta che compri qualcosa chiediti: la porterei per quattro piani di scale?

Come se in cinque anni non avessi fatto altro che accumulare! Sull’orlo della disperazione sento l’amica S. dire: non ti preoccupare, andiamo a casa mia e mettiamo tutto sotto vuoto. Per mettere sottovuoto i vestiti si fa così, si compra dal commerciante orientale la busta per il sottovuoto, che è una bustina di plastica ma gigantesca, con un tappo e chiusura ermetica. Si prende l’aspirapolvere e si aspira l’aria, si richiude il tappo. Che sia un maglione, un etto di prosciutto il procedimento è lo stesso: si aspira l’aria, il contenuto prende meno spazio e si conserva più a lungo (ah no, mi sa che questo vale solo per il prosciutto, o abbiamo inventato un modo per bloccare le mode?)

La prima cosa che ho fatto nella nuova casa è stata una ruota, sì, quella con le mani per terra e le gambe in aria. Dopo anni vissuti in venti metri quadri non ho potuto resistere.

E poi di nuovo ho riempito armadi che ridiventeranno scatole, ma anche regali, rifiuti, ricordi troppo pesanti inutili. Cosa si fa coi rimpianti? Questo lo butto, questo lo tengo, con le decisioni, questa non la dovevo prendere, questa è utile ancora oggi…
Non si può mettere sottovuoto il passato?

Del resto delle prime quattro settimane, scrivo, parlo, ascolto e faccio domande,  dormo nei ritagli di tempo: sona una trainee journalist.

Pronti, partenza…

Da domani le storie continuano dall’altro lato della Manica! Wish me luck!

L’errore giusto

Di recente ho fatto un colloquio ed è andato bene. Non per un nuovo lavoro, ma per tornare a scuola. E dove si sbaglia meglio? (Almeno così si dice, io non ho sbagliato quasi mai e forse è anche questo il problema). Mi sono appassionata tanto alla scrittura di viaggio e gastronomica che mi domando: perché non farne il mio mestiere. No, non è una domanda, infatti. Ma non lo è neanche mai stata.

Ok, questa è una versione della storia un po’ falsa e semplificata. Attraverso i post di viaggio sempre più frequenti, le ricette, attraverso le lettere d’amore, ma anche i resoconti e i rapporti d’attività ed i comunicati mi dico che il mio mestiere sono le storie soltanto.
Questa volta ho controllato tutto, dalla scuola, agli studenti, al lavoro. So meglio cosa voglio. Niente teorie (i teorici della comunicazione non me ne vogliano). Un’esperienza lavorativa obbligatoria. Certificazione professionale. Perché voglio imparare a trasmettere, non a scrivere, quello che succede. Dicono che i giornali muoiono, è vero. Ma credo che non si legga/ascolti meno, solo diversamente. Le storie le prendiamo da un’altra parte e sempre più spesso oltre confine. Ed allora vorrei imparare a raccontare altrove. E a più persone. Per questo, l’italiano secondo me non basta.
Nella mia ricerca ho trovato indispensabili questi siti, che alleano usabilità e affidabilità:

  • Guardian (da quando lessi anni fa il libro sul giornalismo di David Randall, amo il Guardian) ottima anche la parte sula carriera, la consiglio a chiunque volesse cambiare lavoro.
  • The Times poco prima che la versione online diventasse a pagamento (vediamo come va, potrebbero aver fatto bene)
  • The Independent
  • What uni Opînioni sulle università direttamente dagli studenti. Esiste un sito cosi’ per le università italiane?

Cosi’, en passant, quello che è servito a me servirà anche a voi, non esitate a chiedere. Più mi scrivete e più io scrivo.
Ho chiesto consigli e pareri direttamente a sconosciuti di fiducia (nessuno è più affidabile di uno sconosciuto interpellato gentilmente) e ringrazio ex studenti, scrittori, giornalisti e amici che hanno risposto. Soprattutto per il il consiglio di scrivere subito, scrivere adesso, in italiano, in francese, in inglese, in cinese, in endecasillabi, in terzine dantesche. E vedrai che qualcuno ti pubblica ed un giorno ti paga.
Così è deciso, bisogna cambiare città, paese e progetti. Sperando che sia la volta buona, che sia un errore che valga la pena. Perché il problema non è tanto fare un errore, ma fare l’errore giusto.

Questo articolo è dedicato a quelli che si preoccupano per me, a torto o a ragione. Mi preoccupo anch’io, che credi. Ma chissà, forse si è un poco più felici a sbagliare con la propria testa.