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Quatre quarts di compleanno e Home Sweet Home/Sick Project (nuovo!)

“Ma quando pubblichi un’altra torta?” Mi chiede mia mamma. Così ho fatto una torta per il suo compleanno, anzi due. Un quatre quarts bretone, cioè una torta in cui c’è tanta farina quanto zucchero quanto burro quante uova, circa. L’ho fatta e mangiata, perché mamma ha compiuto gli anni a 8167 km da me.

Auguri mamma!

Ingredienti
250 gr di farina
250 gr di zucchero
4 uova
250 gr di zucchero
Lievito (circa 8gr, mezza bustina)
Decorazione: fragole, zucchero, acqua, colore alimentare (facoltativo)

Gli ingredienti per il quatre quarts di compleanno

Separare i tuorli dagli albumi, mettere gli albumi da parte in una grande ciotola e cominciare dai tuorli: mescolarli allo zucchero in una ciotola. Sciogliere il burro. Io lo sciolgo nella teglia in cui metterò la torta mentre il forno si scalda. Così quando tolgo il burro imburro la teglia. Appunto: scaldare il forno a 180°.
Aggiungere il burro morbido/fuso al composto e mescolare con costanza. Deve venire fuori una crema spumosa.

L'impasto per il quatre quarts
Aggiungere la farina e il lievito e mescolare ancora. Montare a neve ferma gli albumi e aggiungerli all’impasto senza smontarli troppo.
Versare il composto nella teglia imburrata e infarinata e cuocere in forno a 180° per circa 45 minuti. Io ci ho messo meno perché invece di una teglia ho preparato due cuori per mamma e una tigre per me e Orso. E poi lo sapete, ogni forno è diverso.

I cuori di compleanno pronti

Quando la torta è pronta, togliere dalla teglia e far raffreddare.
Sciogliere lo zucchero (50gr ad esempio) con un cucchiaio d’acqua calda. Se si usa lo zucchero a velo la glassa diventa opaca e uniforme, io non ce l’avevo, ho usato lo zucchero normale e mi è venuta una bella glassa brillante. Ho aggiunto qualche goccia di colorante alimentare rosso per dare una sfumatura rosa. Rivestire la torta di glassa con una spatola o un cucchiaio. Decorare con fragole e auguri.

I cuori decorati! I cuori decorati!

Orso ha messo il suo zampino nella decorazione!

Due cuori e una tigre
“Perché non hai fatto una torta normale?”
Quando ho fatto le valigie per traslocare avevo a disposizione circa 90 chili  di bagaglio per portare tutto. Quindi alcune teglie da forno sono state sacrificate, ma l’essenziale l’ho comunque portato. Dicesi essenziale: due teglie a forma di cuore ed una a forma di tigre.  E naturalmente uno sbuccia aglio fucsia e un grembiule che sembra un vestitino.

Ho traslocato tante volte, circa una all’anno dal 2005. Potrei dire che il tempo dei traslochi è dietro di me se non sapessi che mi aspettano un’altra trasferta intercontinentale ed un altro trasloco nei prossimi sei-sette mesi.
Avete presente quando le persone fanno finta di lamentarsi ma in realtà si vantano? Ecco, con me non correte questo rischio: io mi compiaccio proprio.
Comunque, viaggiare e traslocare ha cambiato il mio rapporto con le cose.
La vera misura del valore delle cose per me è diventata: la voglio così tanto che me la porterei su assieme a tutto il resto per quattro piani di scale? Pagherei l’affitto di una casa più grande solo per averla? Però questa valutazione la faccio a modo mio.

Il fatto è che sono una feticista. Non nel senso sessuale del termine, anche se farebbe aumentare le visite al blog ben più del glorioso giorno in cui ho pubblicato la ricetta della mia Sacher. In senso etnologico e cioè, c’è tutta una serie di oggetti che mi porto dietro comunque, perché per me rappresentano altro, qualcun altro. Non una divinità però, ma una persona. Lei che era con me, che me le ha regalate, che ne ha uno uguale, che mi viene in mente quando la guardo. O una città, che per me è praticamente una persona. Così io negli anni mi porto dietro sciarpe, sbuccia aglio, presine ma anche statuine di einstein, anelli, bambole giapponesi, salvadanai, cartoline, rossetti, libri, magneti, cornici, tazze che vale la pena trasportare per quattro piani di scale.

La sciarpa con i fiori è B., quelle multicolori M. Gli addobbi di Natale sono S., la scatola del cioccolato S. e E. e le teglie a cuore…
Mamma ovviamente è quasi tutto, ma soprattutto le scarpe con le zeppe, le borse e la bilancia.
Così ho cominciato a fotografarli per casa per farvi vedere che dovunque vada, voi venite con me. Li trovate qui:

homesweethomesick project

Instagram

Ho chiamato questo progetto di fotografia domestica “Homesweethome-sick” e sono molto fiera del gioco di parole.

E Lucy chi rappresenta? Lucy sono io che viaggio da sola, ma questo post è già abbastanza lungo così.

English version in progress, maybe. 

Gabon: se lo sapesse mia mamma + Torta di prugne rovesciata

Lambarené, Gabon, agosto 2013

Il fiume Ogooué in Lambarené, Gabon

Il fiume Ogooué in Lambarené, Gabon. Foto: GManco

Questo post si potrebbe chiamare «se lo sapesse mia mamma». Se lo sapesse mia mamma che cammino da sola, la sera sul ponte sul fiume Ogooué, nel centro del Gabon. Nel sacchetto di plastica un pesce grigliato comprato al mercato notturno di Isaac. Pesce grigliato, banane fritte e una salsa piccantissima e cipolle fresche come contorno.
Ci sono arrivata dicendo al tassista, in un taxi condiviso, di portarmi alla «station», che poi non è altro che una stazione di servizio.
Se lo sapesse mia mamma, che appena arrivata sono uscita non sapendo bene dove andare, ho trovato degli impiegati della società dell’acqua che mi hanno accompagnato al mercato più vicino.

Fish market in Lambarené

Il mercato del pesce di Lambarené. Foto: GManco

Perché ho letto che qui le persone sono gentili, perché mi hanno detto che qui le persone sono gentili, perché talvolta le persone sono gentili se pensi che lo siano. Lo so perché mi piace, questo posto grande sull’equatore dove sono sola e c’è il rumore forte degli insetti notturni. Perché sono libera, perché nessuno conosce il mio nome ma sono disposti a darmi un passaggio, a darmi un consiglio. Perché sono sola e riesco a stare in silenzio. Anche la mia testa tace.
Se lo sapesse mia mamma, che mi sono data un lavoro da fare all’equatore, non so ancora se riuscirò a venderlo, però mi sembra bello, mi sembra importante, mi sembra che qui le persone abbiano cose da dire, solo che nessuno gliele chiede, si va sempre ad interpellare gli stessi.
Se lo sapesse mia mamma, e adesso lo sa, credo che sarebbe orgogliosa.

La torta non ha niente a che fare con l’equatore. La ricetta me l’ha chiesta, che ve lo dico a fare, mia mamma

Torta rovesciata alle prugne

Torta rovesciata alle prugne: pronta!

Ingredienti
Pasta:
150 gr burro
150gr zucchero
3 uova
1-2 cucchiai di latte
40 gr mandorle tritate
mezzo baccello di vaniglia
150gr farina
lievito per dolci – sale

Copertura:
100gr burro
150gr zucchero di canna (il mio veniva direttamente dal Madagascar)
600gr di prugne viola

Torta rovesciata alle prugne: ingredientiIniziare dalla copertura (che è un po’ come il modo di dire: “begin with the end in mind” “Comincia pensando a come finire”, un consiglio da prendere in considerazione quando si dipinge una parete o sale su un albero, ad esempio).
Lavare, snocciolare e tagliare a fette le prugne.
Sciogliere il burro in una padella aggiungere lo zucchero ed ottenere una crema un po’ spumosa. Mescolare in continuazione affiché i due ingredienti non si separino. Versare questo caramello nella teglia da torta imburrata e disporci sopra le fettine di prugne. Disposte a cerchi concentrici sono più carine.  Mettere la teglia da parte e riscaldare il forno a 180°.

Torta rovesciata alle prugne
Passiamo alla base (pasta): sbattere burro e zucchero. Sbattere le uova con il latte ed aggiungerle poco alla volta al composto di burro e zucchero. Aggiungere le mandorle, il lievito, l’interno del baccello di vaniglia ed un pizzico di sale. Mescolare bene ed aggiungere la farina. Quando il composto è ben amalgamato versarlo sulle prugne che attendono sul fondo della teglia.
Cuocere per 45′, fino a che la torta supera la prova dello stecchino.

Fetta di torta rovesciata alle prugneUna volta pronta, lasciare raffreddare qualche minuto, staccare la torta dai bordi con un coltello e rovesciare la torta. Come si rovescia una torta? Si prende un piatto più grande della teglia e lo si mette a mo’ di coperchio sulla torta. Si solleva la torta tenendo una mano sul fondo ed una sul piatto-coperchio. Hop! Si capovolge con un gesto veloce e deciso!

Four years – Quattro anni

Note:
Very accurate reenactment with professional actors.
Ricostruzione storica accurata con attori professionisti. 

Paris, July 2009

A casual encounter that turned into four years…

of love letters,

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of committment…

Four years of committment

… and fights!

Four years of fights

Four years of… ehm… passion!

Four years of passion

Of travels around the world.

Four years of travels around the world

Four years of travels around the world

Four years of travels around the world Four years of travels around the world Four years of travels around the world

Four years, and it’s just the beginning.

It's just the beginning

The shortest month

It’s the shortest month, it doesn’t look like it though.
Febbraio è il mese più corto, però non sembra.

I saw Leipzig glowing with ice and snow.
Ho visto Lipsia risplendere fra ghiaccio e neve.

I got closer to the Equator and looked South, toward the South Pole, from the sunny Accra coast in Ghana, while the Harmattan covered the sky with Sahara sand.
Mi sono avvicinata all’Equatore e ho guardato lontano, verso il Polo Sud, dalla costa di Accra, Ghana, mentre il cielo era pieno di sabbia dal Sahara portata dall’Harmattan

The Volta estuary, GhanaI swam in a Tropical lagoon and went up the Volta River in a pirogue.
Ho nuotato in una laguna tropicale e risalito il fiume Volta a bordo di una piroga.

I saw the sun setting over the weird mix of Alps, highways and suburbs that for long I called home.
Ho visto il sole tramontare su quella strana confusione di montagne, autostrada e provincia che per tanto tempo ho chiamato casa.

And it’s not March yet!
E non è ancora Marzo!

An ordinary day

So, how was your day today? Well, it was not exactly today- it was two or three weeks ago- but nothing I write here is entirely true, remember?

Not too early in the morning I wake up in a sunny Leipzig. I wave good-bye to Orso with very humid eyes: we’ll see each other again in two weeks. And we are only ten days into the European commute that we like to call a marriage.
In Plagwitz I pass by bike by the most beautiful care-home I have ever seen: I wonder whether they accept residents under 30… because I’d definitely love to live in one of the apartments with the view on the canal. I get to work (yes, it is funny and -forgive me for the word- cool, but I’m still making  a job out of telling stories) crossing not one but two parks: I could definitely get used to it. But there is no time.
I get my lunch from a Syrian takeaway, hipster German style: a lot of vegetables and less fat. I’m still not used to it.

I smell the garlic sauce and the grilled chicken and I turn back two years in time: I am in Place Monge, Paris,  and feel that loneliness that does not feel like being alone.

I also think about how uncomfortable I am with the past and what it is all about. Orso says that I always behave as if I was on my guard when I talk in the past tense. I should dig the reasons why but basically: I don’t feel at ease because it’s about another woman, most of the time a girl, I don’t particularly like now.

On my way to the train station I miss the right tram and I have to get on two others trying to make up for my errors: a lot of stress while dragging a too big pink suitcase.

I learnt how to force myself to sleep on transports so the train journey from Leipzig to Berlin passes quickly. Everytime the train goes through  Lutherstadt Wittenberg I can’t help wondering whether Luther’s theses were 95 and everytime I reach home -wherever it is- I’ve already lost interest. Or maybe I don’t want to spoil the only passtime that does not make me sick on transports: having conversations with myself and digging my memory about useless information.

Off the train I jump on the bus to Berlin Tegel airport and hit all ankles I can find in the small corridor of the bus with my too big pink suitcase . I don’t do it on purpose and I am -even if I bit sleepy- pretty so I am forgiven rather easily. Yes, life is unfair.

I get to wait for my flight in the best lounge of the airport: and yes, it includes free food and tv. This is all thanks to Orso, who’s not a billionaire banker but he knows his way through airline promotions like no one.

My plane is the stereotype of a flight to London:  loads of skinny ties and Blackberries. Anyway, finally I have a copy of the Independent on my lap and I hope that the flight is calm enough so that I can read instead of spending my time recalling all the names of dog breeds I used to know when I was nine.

At Heathrow airport there is a bus waiting for me, and I can finally eat my Leipzig-made sandwiches and think about how many German regions I can remember: coach trips really make me sick. Two hours and a definitely different landscape later I am back to the very unlikely place  where exactly one year ago I decided to go to turn my life upside down (and therefore create another past version of myself I would feel uncomfortable with, I guess).

I walk home, I need some fresh air and the Southern coast of England is fresh on a late summer evening, even cold actually, but I put some extra layers on before the passport control at the airport: it’s not the first time I make this complicated trip. It is actually the last one, I think with relief and a point of regret.

Bike-tram-train-plane-coach and then… my own feet: it took so many different transports and now I am in bed with a fluffy raccoon (that’s really another whole story, that of the raccoon -a soft-toy, not a living animal).

In bed I read the French translation of a book on the life-changing trip to Italy of a famous German who lived in Leipzig as a young man: I drift into sleep thinking I am not doing anything new (well, except for the company of the fluffy raccoon).

I know, this post is very private, more private than you’d want it to be, more private than I -and certainly Orso- would like it to be. But my life had overtook my writing for a bit, so I thought that writing had to strike back and take whatever was there.

By the way, I forgot to ask, how was your day?

La fuggitiva

Questo post è scritto in risposta ad  un post del Fatto Quotidiano  sui giovani italiani che lasciano il Paese. Il post di Dino Ameduni,  esperto di nuovi media (lo dico senza ironia: io sono “giornalista multimediale” fai un po’ tu) è stato commentato da moltissimi lettori, eppure dopo averne letti un po’, taluni sensati, altri feroci, taluni condivisibili, altri raccapriccianti, mi sono sentita un po’ sola. Mi sembra che solo l’autrice del blog A mezzogiorno  la pensi un po’ come me.

Lo so, arrivo in ritardo ma… sono sempre in viaggio!

Quando vivevo a Parigi non potevo sopportare gli italiani che non facevano altro che lamentarsi dell’Italia e come te mi dicevo che se avevano tanto da lamentarsi, avrebbero fatto meglio a restare e cercare di cambiare le cose perché altri non dovessero partire incattiviti come loro.

Il tuo discorso però mi sembra tanto riduttivo quanto mi sembrava il loro.

Particolarmente riduttivo (e anche un bel po’ nazionalista) definirci in base alla nazionalità, addirittura campanilista attaccarsi alla nostra città d’origine, per cui se sei di Bari, il tuo dovere è di restare a Bari, finché Bari non sarà un posto migliore.

Perché l’”italianità” dovrebbe pesare di più di tutto il resto? Perché si ha ancora il bisogno di definirsi tramite le nazionalità?

Sostenere che restare in Italia è mia responsabilità di giovane italiana significa negare o mettere in secondo piano ogni altro aspetto di me, di noi. Significa negare la nostra responsabilità di medici, ingegneri, giornalisti, ricercatori, di donne, genitori, europei, adulti.

Non vedo perché coloro che come te e me credono di poter cambiare le cose debbano farlo “da casa”, pena essere tacciati di egoismo.

Ad esempio io talvolta penso che sia una mia responsabilità di donna contrastare le ineguaglianze di genere. Magari miglioro l’Italia mostrando (e non sono la sola) che ci sono giovani donne italiane che non aspirano a farsi mantenere da un vecchio ricco amante.

Hai ragione, abbiamo il diritto di provare a cambiare in meglio (o talvolta a non contribuire a peggiorare) la società per tutti, ma non vedo perché sia meglio farlo da Agrate Brianza né perché il mio impegno debba concentrarsi sull’Italia, invece che su altri Paesi, su altri temi, su altri diritti, sull’Europa. Sono egoista per questo?

Chi parte è costretto dalle circostanze o egoista.
Potrei risponderti che dal mio punto di vista la maggioranza si lamenta, poi va ad abitare a due metri da mamma e papà che li sollevano dagli oneri del quotidiano e se la prende con chi se ne va.

Scrivo in transito fra l”Inghilterra e la Germania, domani e dopodomani lavorerò a Southampton, la settimana prossima invece a Milano. Quando mi chiedono dove abito rispondo: questo mese a Londra (Lipsia/Parigi o altrove). Mannaggia: sono una delle peggiori fuggitive, anche perché mi posso permettere di viaggiare comoda.

Eppure io non mi sento in fuga. Sono in partenza. Non sono scappata da niente, non sono neanche andata in cerca di un futuro migliore che credo avrei avuto anche restando in Italia.
Perché come te credo che sia possibile restare e costruirselo quel futuro. Ma semplicemente non è il mio.
Per te andare a Roma è un viaggio, vivere a Milano è emigrare. Per me andare a Lipsia, Londra, Parigi, Milano è tornare a casa.

I miei figli potranno avere tre passaporti e magari nasceranno in un Paese quarto: sarà un bel problema spiegare loro dove dovranno restare. In Europa,  potrei abbozzare, eppure non avrei nulla da dire se decidessero di migliorare il mondo partendo dal Venezuela.

La tua scelta è valida e anche la mia, non giochiamo a chi è più bravo: uniamo le forze.

Going German: Torta al rabarbaro

Maggio in Germania è la stagione degli asparagi bianchi e del rabarbaro. Maggio per me è il mese di Lipsia.
Cioè, è solo la seconda volta in due anni che mi trovo a Lipsia in maggio. Ma in questi anni sbagliati  in cui l’orizzonte più lontano è di un mese o due, sembra già una tradizione.
L’anno scorso  era la prima volta, l’anno prossimo forse sarà un’abitudine.
E quindi da Lipsia un’altra torta col rabarbaro.

Ingredienti
Pasta:

180 gr farina più una manciata per impastare
125 gr burro
un pizzico di sale
80 gr di zucchero a velo più una manciata per impastare
2 piccole uova
scorza grattuggiata di limone
Legumi secchi per cuocere a vuoto
Ripieno:
600 gr di rabarbaro
100gr di lamponi
100 gr di zucchero
2 uova
30 gr farina
40 gr zucchero
vaniglia
200 ml panna fresca
200 ml latte

Amalgamare gli ingredienti per la pasta, prima con un cucchiaio di legno, poi con le mani. E’ probabile che la pasta sia troppo collosa e si appiccichi perniciosamente alle mani. In questo caso aggiungere farina e zucchero a velo come fosse borotalco, per asciugare e poter tenere in mano la palla di pasta. Quando la pasta è sufficientemente compatta per farne una palla, avvolgetela con la pellicola trasparente e lasciate riposare in frigorifero per almeno un’ora, meglio se quattro: la pasta fredda sarà più facile da stendere.

Sbucciare (pelare?) il rabarbaro con cura e sottofondo di musica classica. Prima di preparare la torta sono andata all’Opera di Lipsia a vedere Der Freischutz in forma konzertant (concertante?) cioè senza costumi né scenografie, solo orchestra e cantanti. In tedesco, per due ore. Non mi sono annoiata però: ho guardato tutti i musicisti, uno ad uno, come si resta ipnotizzati dai vestiti colorati nella lavatrice o dalle foglie in autunno.
Tagliare il rabarbaro a pezzetti, metterlo su una teglia da forno  con i lamponi e coprirli con lo zucchero.  Lasciarli sudare (come fanno le melanzane col sale o Orso quando porta le mie valigie) per due ore, poi metterli in forno a 160 gradi fino a che il rabarbaro si ammorbidisce, pur restando intero.
Stendere la pasta con un mattarello e rivestire il fondo e i bordi di una bellissima teglia da forno da 22 cm,  se avete la fortuna di avere un’amica che ve ne ha regalata una bellissima. Ricoprire la pasta con della carta da forno e riempire la torta di legumi secchi, per non far crescere la torta durante la cottura a vuoto. Cuocere a vuoto a 180° per 20 minuti, senza allontanarsi troppo dal forno.
Preparare la crema mescolando le uova, la farina lo zucchero la vaniglia (in baccello, liquida o in polvere) la panna e il latte.
Spennellare la base della torta con un tuorlo d’uovo e versare il composto di frutta e poi aggiungere la crema… ma questa torta non finisce mai!

 Infornare a 160 ° per un quarto d’ora. Mangiare all’ora del tè, sulla strada per l’aeroporto o in aereo facendo invidia ai vicini condannati ai salatini.

Montréal and I

Montréal from the MountainLike a modern migrant I wanted to see Canada because I read, and I have been told, that is a nice place to live. A better place than here. Montreal, some say, is the most European city of the new continent. I don’t know: what does European mean?

I am an Italian living in UK with a French past and a (Franco-) German Orso, and still I could not say what is “European”. I know I am, but it’s a feeling more than anything else.

Underground art, literally

In Montreal people start a sentence in one language et la terminent dans une autre. This struck me, not because I was surprised, but because I thought it was a privilege reserved to multicultural families. To us.

To me, mixing languages means being always able to look for the exact word, to go as closest as you can to the meaning you want. Maybe it’s just me but I think we can understand each other better if we can speak more than one language. If you bring yours, and I’ll bring mine, like dishes at a dinner party.

Secondly, Montreal seems to believe its own stories. Like I do. The Mont-Royal, where the first French colons planted their cross (now a Tour Eiffel like cross which disappointed me a bit me and Lucy) it’s hill that dominates the city. But they never call it a hill. It’s la Montagne, the mountain, even if it takes half an hour to get on top.
Again, the power is in the name, in calling things what we want them to be, and by the power of the words, they are.

The cross on La Montagne

Let’s say it is a mountain. Let’s say we are explorers. Let’s say you’ll never leave. Let’s say I will make it.

Lucy Looking at Montréal

Of course, you need to see the majestic cathedral, visit the immense cemetery (my favourite travel plan is city highlights- food-cemetery-market-galleries-shopping), experience the underground city, do some restaurant hopping and admire the city covered in snow. But I can tell you about later on.

I walked, eat many sorts of food, talk and talk, smelled the snow, found a talented hairdresser: Montreal felt a little bit like home, a home I have never been before.

 

Montparnasse: relazione a distanza

Quello che mi piace dei cimiteri sono le storie raccontate. A Montparnasse ci sono gli artisti della mia epoca, Simone de Beauvoir, prima di tutti, ma anche Ionesco, Beckett, Man Ray che non abbiamo mai trovato. E poi ci sono tutti gli altri.

Une seule personne manque et toute semble depeuplé. Una sola persona manca e tutto sembra deserto.

Isis ha 28 anni, come te l’anno scorso, quando ti ho conosciuto. Jo ne ha sette di più. La famiglia di lei lo chiama “son compagnon” perché non sono sposati, perché per loro Isis non sarà mai grande. Anche se ogni estate vanno a trovare la famiglia di lui, in Brasile. Quanti aerei in una storia a distanza. Transtlantica, per giunta. Volo AF447 Rio-Parigi 31 maggio 2009: cosa si dicono due amanti in volo? Dormono uno sull’altra, guardano i film tenendosi per mano…

Certo come altro morire se non tornando a casa, insieme?

Postcards from China: Carpe diem, e poi vediamo

Ritornata in Francia, parlo con un ricercatore cinese dell’ufficio accanto al mio. Fang Ming studia le abitudini alimentari dei cinesi emigrati in francia (ci sono proprio tesi di dottorato su tutto, eh?) .

Beijing, Qianmen Dajie

Gli racconto dello shock che ho provato sulla QianMen Dajie. La grande strada che odorava come le anatre appese ai fili elettrici, il groviglio di fili elettrici che sembra un’opera di arte contemporanea, gli animali, i vecchi che giocano a scacchi per strada. La strada che conoscevo non c’è più, questo lo posso anche accettare ma: dove sono i suoi abitanti?

Fang Ming ride e replica che è normale, che in Cina ormai si pensa solo al presente. Non c’è altra via che quella più veloce. A pensarci bene non è stato sempre cosi’, anzi, è stato proprio il contrario. Semplifico un po’, ma la Cina è stato il Paese degli imperi e delle dinastie che si credevano eterne, dove il singolo uomo passa, non conta, ma la storia, l’impero. La Cina, resta e resterà. Ora gli edifici sono costruiti in pochissimo tempo e danno l’impressione che in altrettanto pochissimo tempo invecchieranno. Un po’ più di dieci anni fa sono stata in un hotel della zona delle ambasciate, Sanlitun, sembrava bellissimo e enorme all’epoca, ora rispetto ad altre zone della città sembra vecchissimo, sei anni sono una vita, venti, un’eternità.
Beijing, Qianmen Dajie Dov’è finita quell’idea del mondo e della storia che consentiva di pensare a cento mille anni più in là? L’esercito di terracotta è stato costruito da un imperatore che credeva che il suo impero sarebbe durato diecimila anni. Ne è durato solo dieci e la Muraglia, sempre opera sua, in realtà non è mai servita. Sono delusioni come queste che fanno pensare solo all’oggi?

Tutto quello che oggi è nuovo e scintillante, domani odorerà già un po’ di vecchio. Mi piacerebbe intervistare un urbanista cinese, o anche un urbanista tout court, se ce ne fosse uno fra i miei lettori.

Beijing, Qianmen Dajie

Costruire solo per il presente non sarà un errore? Andare avanti un giorno alla volta è sostenibile? Se sono d’accordo sul fatto che bisogna prendere le occasioni senza mai farsele sfuggire, vivere alla giornata mi sembra una decisione poco saggia. E cosi’ mi chiedo, se esiste solo il presente, il passato non conta e il futuro è troppo lontano,  intrappolati in un enorme carpe diem, spinti a tutta velocità, si saprà ancora dove si sta andando?