Questo post è scritto in risposta ad un post del Fatto Quotidiano sui giovani italiani che lasciano il Paese. Il post di Dino Ameduni, esperto di nuovi media (lo dico senza ironia: io sono “giornalista multimediale” fai un po’ tu) è stato commentato da moltissimi lettori, eppure dopo averne letti un po’, taluni sensati, altri feroci, taluni condivisibili, altri raccapriccianti, mi sono sentita un po’ sola. Mi sembra che solo l’autrice del blog A mezzogiorno la pensi un po’ come me.
Lo so, arrivo in ritardo ma… sono sempre in viaggio!
Quando vivevo a Parigi non potevo sopportare gli italiani che non facevano altro che lamentarsi dell’Italia e come te mi dicevo che se avevano tanto da lamentarsi, avrebbero fatto meglio a restare e cercare di cambiare le cose perché altri non dovessero partire incattiviti come loro.
Il tuo discorso però mi sembra tanto riduttivo quanto mi sembrava il loro.
Particolarmente riduttivo (e anche un bel po’ nazionalista) definirci in base alla nazionalità, addirittura campanilista attaccarsi alla nostra città d’origine, per cui se sei di Bari, il tuo dovere è di restare a Bari, finché Bari non sarà un posto migliore.
Perché l’”italianità” dovrebbe pesare di più di tutto il resto? Perché si ha ancora il bisogno di definirsi tramite le nazionalità?
Sostenere che restare in Italia è mia responsabilità di giovane italiana significa negare o mettere in secondo piano ogni altro aspetto di me, di noi. Significa negare la nostra responsabilità di medici, ingegneri, giornalisti, ricercatori, di donne, genitori, europei, adulti.
Non vedo perché coloro che come te e me credono di poter cambiare le cose debbano farlo “da casa”, pena essere tacciati di egoismo.
Ad esempio io talvolta penso che sia una mia responsabilità di donna contrastare le ineguaglianze di genere. Magari miglioro l’Italia mostrando (e non sono la sola) che ci sono giovani donne italiane che non aspirano a farsi mantenere da un vecchio ricco amante.
Hai ragione, abbiamo il diritto di provare a cambiare in meglio (o talvolta a non contribuire a peggiorare) la società per tutti, ma non vedo perché sia meglio farlo da Agrate Brianza né perché il mio impegno debba concentrarsi sull’Italia, invece che su altri Paesi, su altri temi, su altri diritti, sull’Europa. Sono egoista per questo?
Chi parte è costretto dalle circostanze o egoista.
Potrei risponderti che dal mio punto di vista la maggioranza si lamenta, poi va ad abitare a due metri da mamma e papà che li sollevano dagli oneri del quotidiano e se la prende con chi se ne va.
Scrivo in transito fra l”Inghilterra e la Germania, domani e dopodomani lavorerò a Southampton, la settimana prossima invece a Milano. Quando mi chiedono dove abito rispondo: questo mese a Londra (Lipsia/Parigi o altrove). Mannaggia: sono una delle peggiori fuggitive, anche perché mi posso permettere di viaggiare comoda.
Eppure io non mi sento in fuga. Sono in partenza. Non sono scappata da niente, non sono neanche andata in cerca di un futuro migliore che credo avrei avuto anche restando in Italia.
Perché come te credo che sia possibile restare e costruirselo quel futuro. Ma semplicemente non è il mio.
Per te andare a Roma è un viaggio, vivere a Milano è emigrare. Per me andare a Lipsia, Londra, Parigi, Milano è tornare a casa.
I miei figli potranno avere tre passaporti e magari nasceranno in un Paese quarto: sarà un bel problema spiegare loro dove dovranno restare. In Europa, potrei abbozzare, eppure non avrei nulla da dire se decidessero di migliorare il mondo partendo dal Venezuela.
La tua scelta è valida e anche la mia, non giochiamo a chi è più bravo: uniamo le forze.