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Let’s take a break. Prendiamoci una pausa.

[Testo in italiano in fondo]

January 2016

Unannopersbagliare officially takes a break. Well, I, Gaia, take a break from updating this blog. As you might have noticed I haven’t been posting for some time (or maybe you didn’t as I was never so consistent! 😉 ) and I don’t know when and if I start again.

The thing is, I feel that keeping this blog pushed me in the right direction, the one that I am following now. I needed that push so much at that time: I was going through a depression (even if I didn’t know it yet), and I struggled and fought to get a job I was unhappy with in the end… I needed to start over, allowing myself to make mistakes, as wanting to always do the right thing didn’t lead me far. And certainly didn’t make me happy.
Therefore, in late 2009, I decided I’d find my fresh start in what I’ve always loved doing: writing and cooking. I had just met Orso who had to leave for another continent and therefore I had picked up writing again.

More than six years on I moved to three new countries, I went back to university, I became a journalist (among many other other things!) I married Orso, I threatened to divorce him, I discovered the African and the American continents, I (finally!) lived in China and ate countless slices of cake.
Long story short: apart from my love of cakes, everything else in my life has changed.

That's so exactly me, right now. Ecco, questa sono io, adesso.

That’s so exactly me, right now.
Ecco, questa sono io, adesso.

Now writing and talking is my job: you can follow my media, communication and training work on gaiamanco.net and from there you can discover all the pretty and super-serious things I am doing with digital media.

My cakes now feature on my Instagram account, which is a tribute to my friends and family and how they are present in my everyday life, even if from so far away. And there are a lot of pretty pictures of home and travels.

My travels are featured in my shiny new podcast Accidentally in Joburg. It’s one of the projects I’m most proud of, 100% handmade by me, you should listen to it and follow it. Follow it!

I also try and give an original view of the African continent with my Yebo! radio show. As you notice, they are both in Italian, as I am exploring working more in my mother-tongue.

Of course, I always bring Lucy along, as you can see in the photoblog Lucy travels (Lucy and Gaia) as soon as I get the time to download thousands of pictures from 4 continents and 11+ years of travel.
In my travels, I have even found some fellow feminist bloggers with whom I created the thought-provoking Le Donne Visibili.

Every single of these projects started in a way or another here on unannopersbagliare, and I thank you for reading and supporting me.

I’m sure we’re going to meet again for an honest chat and a piece of cake.
See you,

Gaia


 

Gennaio 2016

Unannopersbagliare si prende ufficialmente una pausa. O meglio, io, Gaia, mi prendo una pausa dall’aggiornare questo blog. Non pubblico un nuovo post da molto tempo (non che sia mai stata molto puntuale, è vero) e non so se e quando ricomincerò.
Il fatto è che mi sembra che questo blog -e voi che lo avete letto- mi abbia spinta nella direzione giusta. Quando ho cominciato avevo bisogno di quella spinta: stavo attraversando una depressione (anche se all’epoca non lo sapevo) e avevo trovato a fatica un lavoro e una vita che credevo di volere e invece… Insomma: avevo bisogno di ricominciare, sbagliando, perché credere di fare tutto giusto non mi aveva portata lontano. E di certo non mi aveva fatta felice. Mi serviva una nuova partenza, ed avevo deciso di trovarla nelle cose che mi sono sempre piaciute, comunque: scrivere e cucinare. Avevo appena incontrato Orso che era subito partito per un altro continente e per questo avevo ripreso a scrivere.

Da allora ho traslocato tre volte in tre Paesi diversi, sono tornata all’università, sono diventata giornalista (e non solo!), ho sposato Orso, l’ho minacciato di divorziare, ho scoperto l’Africa e l’America, ho vissuto in Cina e mangiato tantissime torte.
Per farla breve: è cambiato tutto nella mia vita, tranne l’amore per le torte.

That's so exactly me, right now. Ecco, questa sono io, adesso.

That’s so exactly me, right now.
Ecco, questa sono io, adesso.

Adesso scrivo e parlo per lavoro: su gaiamanco.net potete restare aggiornati sul mio lavoro nei media e comunicazione (in inglese, italiano, francese e tedesco, non ancora in cinese!) e scoprire tutte le cose serie e interessanti che faccio e che mi piacciono.

Le torte si trovano sul mio account Instagram , che è un omaggio alla presenza della mia famiglia e dei miei amici nella mia vita di tutti i giorni in altri continenti. E ci sono anche un sacco di foto carine di dove vivo e dove vado.

Dei miei viaggi ora parlo nel mio nuovissimo podcast Accidentally in Joburg. E’ un progetto di cui sono fierissima, ascoltatelo e seguitelo, è fatto a mano da me dalla prima all’ultima parola. Seguitelo!

Cerco anche di dare una visione alternativa del continente africano con la rubrica radiofonica Yebo! Entrambi i radio-progetti sono in italiano, anche questa è una nuova sperimentazione.

Porto sempre Lucy con me, ovviamente, come si vede nel photoblog Lucy travels (Lucy and Gaia), anzi come si vedrà quando avrò tempo di scaricare le migliaia di foto che le ho fatto in questi 11 anni insieme!
Ah, ho anche finalmente trovato delle amiche blogger e femministe, ed insieme abbiamo creato Le Donne Visibili.

In un modo o nell’altro, ognuno di questi progetti è nato su questo blog, quindi vi ringrazio per avermi letta e sostenuta.

Sono sicura che ci rivedremo per una confidenza ed una fetta di torta.
A presto,

Gaia

L’uomo che canta

Nel Clara-Zetkin-Park c’è un uomo che canta.

Quasi con qualsiasi tempo, di preferenza quando fa buio, lo trovi lì sempre alla stessa curva vicino allo stagno, con il suo amplificatore. Canta male non capisco bene cosa: canzoni tedesche, americane?
Torno a casa la sera in bicicletta e non c’è nessuno nel parco, solo la luce della torcia con la quale lui legge i testi delle canzoni.
Non sempre chiede soldi ma li accetta.
Quando nevica ed io tengo la testa bassa per non farmi entrare la neve negli occhi, lui canta.
Qualcosa nella sua testa gli dice di uscire e di cantare.
È un pazzo, dicono i passanti.

Mi immagino che neanche lui lo sappia più il perché. Se crede che il mondo finisca il giorno in cui lui non uscirà a cantare, oppure se lo fa per senso del dovere, perché il tempo è brutto, fa buio presto, le vacanze sono finite e serve qualcuno che canti per tirare su il morale.
Forse lo fa perché così ha qualcosa da fare ogni giorno, la sua testa si è inventata un dovere, un lavoro, ché senza lavoro non sei niente.
È un pazzo perché qualcosa gli dice di uscire ogni giorno, alla stessa ora.
È pazzo, dice chi si proclama sano. E passa davanti al cantante del parco, ogni giorno, alla stessa ora, con qualsiasi tempo.

Corso prematrimoniale ad uso di M e A

Quando M e A mi hanno chiesto di sposarli ho promesso loro che avrei organizzato un corso pre-matrimoniale. Sì, lo so, ho appena un anno di esperienza: sempre più di qualsiasi prete, no?

"The Happy Ring" House Central Dublin

A sa già, per averlo visto coi suoi occhi, che a volte perché un matrimonio funzioni l’uomo si occupa della cena mentre la moglie beve birra guardando la partita con le amiche. Ha capito cioè che va bene tutto, basta che siano tutti e due d’accordo.

A ci ha visti anche andare in bicicletta mano nella mano: per due persone così serie, siamo proprio ridicoli. Sì, una soglia del ridicolo molto alta decisamente ci vuole.

Il mio studente preferito -il fatto è che poi i miei studenti mi leggono e così scoprono che ne ho uno preferito, quindi no, dai siete tutti preferiti- è un bel tedesco alto con un grande sorriso (sono sposata ma sono sempre la stessa). Quando l’ho conosciuto era sposato felicemente da quarant’anni -io da sei mesi-. Gli ho chiesto come avessero fatto: “non so cosa dirti, per me è facile, -mi ha detto- mia moglie è bellissima”.

Non ho mai chiesto ai miei genitori cosa li faccia stare insieme anche perché non penso che mio papà ammetterebbe mai che è facile. E perché penso che queste conversazioni fra genitori e figli avvengano solo nelle serie tv, quel momento in cui la madre o il padre svelano alla figlia il segreto. Ci credo che lo devono dire, un episodio dura solo venti minuti, devono essere espliciti. Invece nella vita reale se non l’hai capito in vent’anni di pranzi e cene e viaggi in auto, mobili e cani non saranno due minuti di discorso a fartelo capire.

La mia caporedattrice americana alla radio tedesca internazionale mi ha detto che a novembre per qualche giorno non ci sarà perché si sposa. Io non l’ho mai incontrata di persona, conosciamo le nostre voci solo perché, beh, facile, lavoriamo alla radio. Comunque, non la conosco ma mi ha fatto piacere sapere che si sposa. Le ho fatto gli auguri per il coraggio di ambire al “per sempre”.

Però allo stesso tempo penso: ma cosa c’è di coraggioso nello scegliere l’opzione più semplice, anzi l’unica quando un giorno alla volta non basta più? Per me oggi stare con Orso è come stare da sola ma meglio e lui capisce senza che glielo si debba spiegare che complimento gigante sia questo.  Lo so, presto o tardi mi mangerò le mani per aver scritto questo, pubblicamente, quando non lo sopporterò, per un giorno o anche per un mese.

Ma adesso no, adesso è il tempo di essere ambiziosi.

Cari M e A non vi ho insegnato proprio niente.
Però siete bellissimi quindi partite avvantaggiati.

The shortest month

It’s the shortest month, it doesn’t look like it though.
Febbraio è il mese più corto, però non sembra.

I saw Leipzig glowing with ice and snow.
Ho visto Lipsia risplendere fra ghiaccio e neve.

I got closer to the Equator and looked South, toward the South Pole, from the sunny Accra coast in Ghana, while the Harmattan covered the sky with Sahara sand.
Mi sono avvicinata all’Equatore e ho guardato lontano, verso il Polo Sud, dalla costa di Accra, Ghana, mentre il cielo era pieno di sabbia dal Sahara portata dall’Harmattan

The Volta estuary, GhanaI swam in a Tropical lagoon and went up the Volta River in a pirogue.
Ho nuotato in una laguna tropicale e risalito il fiume Volta a bordo di una piroga.

I saw the sun setting over the weird mix of Alps, highways and suburbs that for long I called home.
Ho visto il sole tramontare su quella strana confusione di montagne, autostrada e provincia che per tanto tempo ho chiamato casa.

And it’s not March yet!
E non è ancora Marzo!

Il dolce di Natale dalla memoria lunghissima (Stollen – Weihnachtsstollen)

Il dolce di Natale quest’anno ha la memoria lunga, due settimane almeno. Per un dolce mi sembra una gran cosa.

Gli ingredienti per lo Stollen

Io ho la memoria lunghissima oppure inesistente. Non mi ricordo “più o meno” di esser stata in un posto. Mi ricordo tutti i dettagli, mi ricordo di come ero vestita e delle parole che hai usato, una per una. Come Funes di Borges, sono prigioniera di tutte le cose insignificanti che ricordo.
Oppure non ricordo niente. Ma proprio niente, come una rockstar degli Anni Settanta, senza la vita da rockstar però. E senza gli anni Settanta.

Così, ogni volta che mi arrabbio perché non mi hanno messa al corrente di qualcosa aggiungo: “a meno che tu me l’abbia detto e io l’abbia già dimenticato, in quel caso allora scusa”.

In pratica ho una memoria selettiva, ma capricciosa. Non mi ricordo le liti ad esempio, così ci passo sopra in fretta, ma neanche le riconciliazioni e le scuse, così serbo rancore infinito.
Mi ricordo bene ciò che ho detto e mi imbarazza anche oggi, anche se avevo 15 anni, e tutti abbiamo avuto 15 anni ad un certo punto.
Talvolta la memoria è un gioco da fare in autobus, tipo ricordare una poesia lunga che pareva dimenticata da anni o la voce registrata della metropolitana di Praga dieci anni fa.
Talvolta il gioco è tortura per chi mi sta di fronte, perché mi trasformo nel suo specchio: non negare, io mi ricordo.

La memoria si trasferisce sugli oggetti e quindi ad ognuno dei mille traslochi (no, circa sette, ma in sei anni, quindi sembrano mille) devo buttare via un sacco di cose. Ieri sera in un film la protagonista sfogliava un libro, tornata a casa voglio farlo anch’io ma non ce l’ho più: apparteneva alla storia di un amore passato e l’ho buttato. Troppi ricordi.

Così, quando servirò questo dolce ci saranno dentro almeno tre settimane, dalla domenica lunghissima in cui io e Orso lo abbiamo preparato, al giorno di Natale.

Weihnachtsstollen – Stollen di Natale- (tipico dolce sassone di Natale, alcuni dicono originario della città di Dresda)

Ingredienti per due grossi Stollen.
Due, perché due? Perché a Natale è sempre in tanti, perché anche se non siete in tanti lo Stollen si conserva per molte settimane, perché ci vuole un pomeriggio buono a farlo quindi tanto vale farne un po’. Perché io e Orso siamo in due e viviamo in un matrimonio talvolta molto competitivo: il mio Stollen è venuto più bello, ovviamente.

700 g Farina di grano tenero (quella bianca, 00)
300 g Farina di segale
400 g Burro ammorbidito a temperatura ambiente
100 g Burro chiarificato. Si tratta di burro a cui è stato lasciato solo il grasso: è consigliato per le alte temperature e la conservazione. Dovreste  trovarlo in vaschette o panetti al supermercato accanto al burro. Se no lo potete fare a mano. O usare il burro normale, ma questo limita la conservazione del dolce.
200 ml Latte
200 g Zucchero
120 g Lievito fresco (corrisponde a 3 cubi di lievito)
ca. 10 g Sale
3 cucchiaini spezie: Cannella, semi di cardamomo tritato, polvere di noce moscata, polvere di chiodi di garofano
Un baccello di vaniglia
La buccia grattuggiata di un limone
600 g uvette (noi abbiamo usato quelle di Corinto, perché? vedi: albicocche)
200 g Mandorle tagliate per il lungo (non a lamelle, a pezzetti)
150 g  Albicocche secche (le nostre venivano dalla Turchia: Orso si è dato allo shopping online di gastronomia)
4 cucchiai di Rum Cubano, che non è proprio-proprio il liquore tipico della Sassonia, ma è quello che paradossalmente più si sposa con la ricetta tradizionale

Per la copertura:
150 g Burro chiarificato
100g Burro
100 g Zucchero a velo
Pellicola trasparente per alimenti (non si mangia, ma te lo scrivo qui perché così non arrivi alla fine per poi accorgerti che ti manca).

La reazione del lievito!Marinare l’uvetta per due ore nel rum. Mettere le farine (1kg!) in una grossa ciotola, fare un buco al centro e mettere i tre panetti di lievito. Versare il latte riscaldato sul lievito, aggiungere un cucchiaio di zucchero ed ammirare la reazione per trenta secondi. Mescolare gentilmente il lievito con un po’ della farina che lo circonda, non tutta. Ammirare la reazione del lievito con la farina per altri 30 minuti. In questa mezz’ora si possono anche fare altre cose, ma il lievito che si muove è proprio divertente da guardare.

Impasto per lo StollenAggiungere tutti gli ingredienti tranne la frutta e mescolare bene. Aggiungere la frutta secca e mescolare ancora meglio: la cucina talvolta è meglio della palestra (la cucina è sempre meglio della palestra, altroché). Coprire con uno strofinaccio e lasciare lievitare per un’ora e un quarto.

I due StollenDividere l’impasto a metà con le mani e farne due grossi filoni da adagiare su una teglia da forno (imburrata solo se serve, io ed il mio forno professionista e professionale non ne abbiamo bisogno ad esempio). Questi sono gli Stollen, appunto. Lasciare riposare altri 45 minuti. Sono già quattro ore e mezza che siamo in ballo.

Riscaldare il forno a 155° gradi ed infornare i due Stollen per 55-60 minuti. Lo Stollen è pronto quando passa la prova dello stecchino: se infili uno stecchino al centro esce asciutto. La casa profuma dappertutto di Natale.

Stollen inzuccheratiSciogliere il burro (e il burro chiarificato) della copertura e forare gli Stollen un po’ dappertutto con un ferro da maglia. Spennellare gli Stollen con il burro fuso, facendo attenzione a farlo penetrare bene nei fori. Coprire con uno strato sottile e uniforme di zucchero a velo e fare raffreddare. Solo quando il dolce si è raffreddato ben bene, coprire uniformemente con una strato spesso ed uniforme di zucchero a velo. Avvolgere ciascuno Stollen in metri e metri di pellicola trasparente, sistemare in un luogo buio e secco (una dispensa) per circa due settimane, perché lo Stollen catturi bene tutti i sapori ed i ricordi di Natale. Quali sono i vostri? Si conserveranno come lo Stollen per tutto gennaio?

Stollen impacchettatoI tempi di attesa sono lunghi, ma mentre si aspetta di può decorare l’albero, fare le liste dei regali oppure impacchettarli. O guardare fuori dalla finestra e ricordare.

An ordinary day

So, how was your day today? Well, it was not exactly today- it was two or three weeks ago- but nothing I write here is entirely true, remember?

Not too early in the morning I wake up in a sunny Leipzig. I wave good-bye to Orso with very humid eyes: we’ll see each other again in two weeks. And we are only ten days into the European commute that we like to call a marriage.
In Plagwitz I pass by bike by the most beautiful care-home I have ever seen: I wonder whether they accept residents under 30… because I’d definitely love to live in one of the apartments with the view on the canal. I get to work (yes, it is funny and -forgive me for the word- cool, but I’m still making  a job out of telling stories) crossing not one but two parks: I could definitely get used to it. But there is no time.
I get my lunch from a Syrian takeaway, hipster German style: a lot of vegetables and less fat. I’m still not used to it.

I smell the garlic sauce and the grilled chicken and I turn back two years in time: I am in Place Monge, Paris,  and feel that loneliness that does not feel like being alone.

I also think about how uncomfortable I am with the past and what it is all about. Orso says that I always behave as if I was on my guard when I talk in the past tense. I should dig the reasons why but basically: I don’t feel at ease because it’s about another woman, most of the time a girl, I don’t particularly like now.

On my way to the train station I miss the right tram and I have to get on two others trying to make up for my errors: a lot of stress while dragging a too big pink suitcase.

I learnt how to force myself to sleep on transports so the train journey from Leipzig to Berlin passes quickly. Everytime the train goes through  Lutherstadt Wittenberg I can’t help wondering whether Luther’s theses were 95 and everytime I reach home -wherever it is- I’ve already lost interest. Or maybe I don’t want to spoil the only passtime that does not make me sick on transports: having conversations with myself and digging my memory about useless information.

Off the train I jump on the bus to Berlin Tegel airport and hit all ankles I can find in the small corridor of the bus with my too big pink suitcase . I don’t do it on purpose and I am -even if I bit sleepy- pretty so I am forgiven rather easily. Yes, life is unfair.

I get to wait for my flight in the best lounge of the airport: and yes, it includes free food and tv. This is all thanks to Orso, who’s not a billionaire banker but he knows his way through airline promotions like no one.

My plane is the stereotype of a flight to London:  loads of skinny ties and Blackberries. Anyway, finally I have a copy of the Independent on my lap and I hope that the flight is calm enough so that I can read instead of spending my time recalling all the names of dog breeds I used to know when I was nine.

At Heathrow airport there is a bus waiting for me, and I can finally eat my Leipzig-made sandwiches and think about how many German regions I can remember: coach trips really make me sick. Two hours and a definitely different landscape later I am back to the very unlikely place  where exactly one year ago I decided to go to turn my life upside down (and therefore create another past version of myself I would feel uncomfortable with, I guess).

I walk home, I need some fresh air and the Southern coast of England is fresh on a late summer evening, even cold actually, but I put some extra layers on before the passport control at the airport: it’s not the first time I make this complicated trip. It is actually the last one, I think with relief and a point of regret.

Bike-tram-train-plane-coach and then… my own feet: it took so many different transports and now I am in bed with a fluffy raccoon (that’s really another whole story, that of the raccoon -a soft-toy, not a living animal).

In bed I read the French translation of a book on the life-changing trip to Italy of a famous German who lived in Leipzig as a young man: I drift into sleep thinking I am not doing anything new (well, except for the company of the fluffy raccoon).

I know, this post is very private, more private than you’d want it to be, more private than I -and certainly Orso- would like it to be. But my life had overtook my writing for a bit, so I thought that writing had to strike back and take whatever was there.

By the way, I forgot to ask, how was your day?

La fuggitiva

Questo post è scritto in risposta ad  un post del Fatto Quotidiano  sui giovani italiani che lasciano il Paese. Il post di Dino Ameduni,  esperto di nuovi media (lo dico senza ironia: io sono “giornalista multimediale” fai un po’ tu) è stato commentato da moltissimi lettori, eppure dopo averne letti un po’, taluni sensati, altri feroci, taluni condivisibili, altri raccapriccianti, mi sono sentita un po’ sola. Mi sembra che solo l’autrice del blog A mezzogiorno  la pensi un po’ come me.

Lo so, arrivo in ritardo ma… sono sempre in viaggio!

Quando vivevo a Parigi non potevo sopportare gli italiani che non facevano altro che lamentarsi dell’Italia e come te mi dicevo che se avevano tanto da lamentarsi, avrebbero fatto meglio a restare e cercare di cambiare le cose perché altri non dovessero partire incattiviti come loro.

Il tuo discorso però mi sembra tanto riduttivo quanto mi sembrava il loro.

Particolarmente riduttivo (e anche un bel po’ nazionalista) definirci in base alla nazionalità, addirittura campanilista attaccarsi alla nostra città d’origine, per cui se sei di Bari, il tuo dovere è di restare a Bari, finché Bari non sarà un posto migliore.

Perché l’”italianità” dovrebbe pesare di più di tutto il resto? Perché si ha ancora il bisogno di definirsi tramite le nazionalità?

Sostenere che restare in Italia è mia responsabilità di giovane italiana significa negare o mettere in secondo piano ogni altro aspetto di me, di noi. Significa negare la nostra responsabilità di medici, ingegneri, giornalisti, ricercatori, di donne, genitori, europei, adulti.

Non vedo perché coloro che come te e me credono di poter cambiare le cose debbano farlo “da casa”, pena essere tacciati di egoismo.

Ad esempio io talvolta penso che sia una mia responsabilità di donna contrastare le ineguaglianze di genere. Magari miglioro l’Italia mostrando (e non sono la sola) che ci sono giovani donne italiane che non aspirano a farsi mantenere da un vecchio ricco amante.

Hai ragione, abbiamo il diritto di provare a cambiare in meglio (o talvolta a non contribuire a peggiorare) la società per tutti, ma non vedo perché sia meglio farlo da Agrate Brianza né perché il mio impegno debba concentrarsi sull’Italia, invece che su altri Paesi, su altri temi, su altri diritti, sull’Europa. Sono egoista per questo?

Chi parte è costretto dalle circostanze o egoista.
Potrei risponderti che dal mio punto di vista la maggioranza si lamenta, poi va ad abitare a due metri da mamma e papà che li sollevano dagli oneri del quotidiano e se la prende con chi se ne va.

Scrivo in transito fra l”Inghilterra e la Germania, domani e dopodomani lavorerò a Southampton, la settimana prossima invece a Milano. Quando mi chiedono dove abito rispondo: questo mese a Londra (Lipsia/Parigi o altrove). Mannaggia: sono una delle peggiori fuggitive, anche perché mi posso permettere di viaggiare comoda.

Eppure io non mi sento in fuga. Sono in partenza. Non sono scappata da niente, non sono neanche andata in cerca di un futuro migliore che credo avrei avuto anche restando in Italia.
Perché come te credo che sia possibile restare e costruirselo quel futuro. Ma semplicemente non è il mio.
Per te andare a Roma è un viaggio, vivere a Milano è emigrare. Per me andare a Lipsia, Londra, Parigi, Milano è tornare a casa.

I miei figli potranno avere tre passaporti e magari nasceranno in un Paese quarto: sarà un bel problema spiegare loro dove dovranno restare. In Europa,  potrei abbozzare, eppure non avrei nulla da dire se decidessero di migliorare il mondo partendo dal Venezuela.

La tua scelta è valida e anche la mia, non giochiamo a chi è più bravo: uniamo le forze.

Going German: Torta al rabarbaro

Maggio in Germania è la stagione degli asparagi bianchi e del rabarbaro. Maggio per me è il mese di Lipsia.
Cioè, è solo la seconda volta in due anni che mi trovo a Lipsia in maggio. Ma in questi anni sbagliati  in cui l’orizzonte più lontano è di un mese o due, sembra già una tradizione.
L’anno scorso  era la prima volta, l’anno prossimo forse sarà un’abitudine.
E quindi da Lipsia un’altra torta col rabarbaro.

Ingredienti
Pasta:

180 gr farina più una manciata per impastare
125 gr burro
un pizzico di sale
80 gr di zucchero a velo più una manciata per impastare
2 piccole uova
scorza grattuggiata di limone
Legumi secchi per cuocere a vuoto
Ripieno:
600 gr di rabarbaro
100gr di lamponi
100 gr di zucchero
2 uova
30 gr farina
40 gr zucchero
vaniglia
200 ml panna fresca
200 ml latte

Amalgamare gli ingredienti per la pasta, prima con un cucchiaio di legno, poi con le mani. E’ probabile che la pasta sia troppo collosa e si appiccichi perniciosamente alle mani. In questo caso aggiungere farina e zucchero a velo come fosse borotalco, per asciugare e poter tenere in mano la palla di pasta. Quando la pasta è sufficientemente compatta per farne una palla, avvolgetela con la pellicola trasparente e lasciate riposare in frigorifero per almeno un’ora, meglio se quattro: la pasta fredda sarà più facile da stendere.

Sbucciare (pelare?) il rabarbaro con cura e sottofondo di musica classica. Prima di preparare la torta sono andata all’Opera di Lipsia a vedere Der Freischutz in forma konzertant (concertante?) cioè senza costumi né scenografie, solo orchestra e cantanti. In tedesco, per due ore. Non mi sono annoiata però: ho guardato tutti i musicisti, uno ad uno, come si resta ipnotizzati dai vestiti colorati nella lavatrice o dalle foglie in autunno.
Tagliare il rabarbaro a pezzetti, metterlo su una teglia da forno  con i lamponi e coprirli con lo zucchero.  Lasciarli sudare (come fanno le melanzane col sale o Orso quando porta le mie valigie) per due ore, poi metterli in forno a 160 gradi fino a che il rabarbaro si ammorbidisce, pur restando intero.
Stendere la pasta con un mattarello e rivestire il fondo e i bordi di una bellissima teglia da forno da 22 cm,  se avete la fortuna di avere un’amica che ve ne ha regalata una bellissima. Ricoprire la pasta con della carta da forno e riempire la torta di legumi secchi, per non far crescere la torta durante la cottura a vuoto. Cuocere a vuoto a 180° per 20 minuti, senza allontanarsi troppo dal forno.
Preparare la crema mescolando le uova, la farina lo zucchero la vaniglia (in baccello, liquida o in polvere) la panna e il latte.
Spennellare la base della torta con un tuorlo d’uovo e versare il composto di frutta e poi aggiungere la crema… ma questa torta non finisce mai!

 Infornare a 160 ° per un quarto d’ora. Mangiare all’ora del tè, sulla strada per l’aeroporto o in aereo facendo invidia ai vicini condannati ai salatini.

Love letters in London

Love letters in Shoreditch, inserito originariamente da Lucy in giro.

After admiring A Love letter for you murals, I finally spotted a similar one myself in London.

I think we should move to Shoreditch.

Montréal and I

Montréal from the MountainLike a modern migrant I wanted to see Canada because I read, and I have been told, that is a nice place to live. A better place than here. Montreal, some say, is the most European city of the new continent. I don’t know: what does European mean?

I am an Italian living in UK with a French past and a (Franco-) German Orso, and still I could not say what is “European”. I know I am, but it’s a feeling more than anything else.

Underground art, literally

In Montreal people start a sentence in one language et la terminent dans une autre. This struck me, not because I was surprised, but because I thought it was a privilege reserved to multicultural families. To us.

To me, mixing languages means being always able to look for the exact word, to go as closest as you can to the meaning you want. Maybe it’s just me but I think we can understand each other better if we can speak more than one language. If you bring yours, and I’ll bring mine, like dishes at a dinner party.

Secondly, Montreal seems to believe its own stories. Like I do. The Mont-Royal, where the first French colons planted their cross (now a Tour Eiffel like cross which disappointed me a bit me and Lucy) it’s hill that dominates the city. But they never call it a hill. It’s la Montagne, the mountain, even if it takes half an hour to get on top.
Again, the power is in the name, in calling things what we want them to be, and by the power of the words, they are.

The cross on La Montagne

Let’s say it is a mountain. Let’s say we are explorers. Let’s say you’ll never leave. Let’s say I will make it.

Lucy Looking at Montréal

Of course, you need to see the majestic cathedral, visit the immense cemetery (my favourite travel plan is city highlights- food-cemetery-market-galleries-shopping), experience the underground city, do some restaurant hopping and admire the city covered in snow. But I can tell you about later on.

I walked, eat many sorts of food, talk and talk, smelled the snow, found a talented hairdresser: Montreal felt a little bit like home, a home I have never been before.