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Four years – Quattro anni

Note:
Very accurate reenactment with professional actors.
Ricostruzione storica accurata con attori professionisti. 

Paris, July 2009

A casual encounter that turned into four years…

of love letters,

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of committment…

Four years of committment

… and fights!

Four years of fights

Four years of… ehm… passion!

Four years of passion

Of travels around the world.

Four years of travels around the world

Four years of travels around the world

Four years of travels around the world Four years of travels around the world Four years of travels around the world

Four years, and it’s just the beginning.

It's just the beginning

Three years

Now that we are here, nothing else matters

From the art project: A love letter to Syracuse

I lived in three countries visited four continents.
I lost a job, I left another job and went back to university.
I burned bridges and made a friend I’ve always missed.
I investigated a murder case and baked perfect meringues.
I cheated and swore eternal love.
I picked up a new language and forgot an old one.
I lost my mind, then got it back, then lost it again. Now, I’m fighting for it once more.
I screamed with rage one afternoon in the peace of the Summer Palace, I laughed in a Portuguese garden in Montreal, I waved hello to giraffes in Leipzig.

And all of it because today, three years ago, I met you.

First it was a conversation, then a kiss, then a love letter. Before we realised it, it was life.

La giardiniera incostante

Piantina di timo e bambolina giapponese Io non so niente di giardinaggio. Ma proprio niente. Per questo vorrei che la mia vita gli assomigliasse un po’ di più. Al giardinaggio.
Dicevo, non so proprio niente niente eppure ogni volta che arrivo in una nuova casa prima o poi viene il momento: e se mi prendessi cura di qualche pianta? Quando arrivai in Inghilterra ho persino comprato dei bulbi pensando che un caotico giardino all’inglese facesse per me: i fiori non spuntarono mai. Prima tenevo le mie tre piantine sul davanzale davanti alla porta del mio appartamento parigino, perché all’interno non c’era abbastanza spazio. Un giorno scoprii davanti alla mia porta la vecchina del terzo piano prendersi cura delle mie piante di nascosto: “le ho viste così malmesse, pensavo che fossi partita da tempo”. Ero in casa. Da quel giorno le ho affidato le mie piante che fossi in aereo o solo sotto la doccia e quando ho lasciato Parigi gliele ho regalate, o almeno i loro amabili resti.

Insomma, per dire quanto io non ne sappia niente. Però mi piace sempre di più occuparmi di piante. Quello che mi piace è che lo faccio con una convizione che sembra che io sappia tutto, con una sicurezza che sembra dire: io so cosa sto facendo, anche se il mio unico attrezzo è un cucchiaio da minestra. Dieci, venti giorni dopo forse non spunterà niente, e la maggior parte delle volta non spunta niente. La maggior parte delle altre volte ciò che è gia spuntato muore.
Ma talvolta qualcosa spunta e talvolta l’origano dimenticato durante il nostro inverno africano ritorna in vita. Così nel giardinaggio qualunque cosa bella è un regalo, qualunque cosa brutta un incidente già dimenticato.
Siccome la vita io l’affronto proprio al contrario, mi chiedo se non debba darmi al giardinaggio. Ma solo così, senza mai imparare nulla.

Domani andrà meglio

Ho scritto questo post un po’ di giorni fa. Perché coi momenti difficili si impara a prendere le misure, si sa che non si devono prendere decisioni importanti, come lasciare il lavoro o adottare un cane (anche se vorrei tantissimo un cane) o scrivere cose che poi, anche se le cancelli, restano da qualche parte  e rischiano di danneggiare lavoro-amici–famiglia-matrimonio.

Mi piace di più il termine disturbo dell’umore, utilizzo malattia mentale solo per scioccare il pubblico. Dire che ho un disturbo dell’umore (unipolare nel mio caso, io sono solo triste) sembra che voglia dire che in pratica sono solo antipatica. E non mi dispiace (e poi per quello non serviva il medico, lo diceva anche mia sorella gratis).

Talvolta penso che abbiamo qualcosa tutti, solo che io lo so ed altri ancora devono scoprirlo. O meglio che solo alcuni, alcuni ma sempre tantissimi, superano la soglia fra l’infelicità, la disperazione anche, e la malattia.

Ho passato tanto tempo ad investigarlo, e mi hanno detto che è comune fra i depressi voler sapere e voler comunicare. Dicono che sia perché è una malattia che non si vede e raccontarla è l’unico modo che abbiamo per essere presi sul serio, per tentare almeno. Questo è stato il mio modo di essere presa sul serio, come giornalista multimediale ma anche come portatrice (la maggior parte dei giorni sana e felice) di un disturbo dell’umore. 

In ogni caso, ho passato tempo a leggere, scrivere, investigare, indagare e devo dire che sono anche fiera del lavoro che ne è uscito. Però più che tutti gli articoli e le interviste oggi mi è venuta in mente una canzone francese, sempre quella, che dice che domani andrà meglio, senza crederci neanche un po’, ma ridendone parecchio. Perché qui, seduta sul divano di casa nel mezzo del pomeriggio, con le guance arrabbiate e le occhiaie da procione (leggi qui la storia del procione, il raccoon) , sarò anche depressa, ma sono soprattutto tanto ridicola. E allora tanto vale riderne.

“Triste compagne” è una canzone francese che mi piace dalla prima volta che l’ho sentita. I cantautori francesi hanno tanti difetti, primo fra tutti quello di essere cantautori francesi, però hanno anche un pregio grandissimo. Sanno raccontare delle storie, o meglio pensano che il loro lavoro principale sia raccontare una storia cantata, sì cantano storie, invece di I’ll miss you, we’ll be together, perdonami, I want to marry you, baciami che predominano in altre musiche pop.

In questa canzone Benabar, il sopraddetto cantautore francese, cerca un nome per il suo malessere ed elenca i motivi che ha per essere triste ogni giorno. Come la lacrima che scende in autunno per le foglie morte, “che poi, le conoscevo appena, non erano neanche mie parenti”. Cerca di dare un nome ed attraverso il nome una ragione, una giustificazione, per qualcosa che spesso, come mi disse un giorno una giovane e sincera psichiatra “non ne ha una, come tante cose brutte”.

Così lui invece di disperarsi ancor di più, decide di riderne e trasformarla in uno piccolo spettacolo di cabaret (ma qui se non hai visto il video di cui ho già messo il link sopra non si capisce come faccia) perché “soffrire dalla mattina alla sera, è una gran fatica!”

Il mio passaggio preferito resta il ritornello: “Domani andrà meglio, o almeno lo spero… perché è la stessa cosa che mi son detto ieri”.
Da cantare col sorriso sulle labbra (ed eventualmente un buon correttore).

Montparnasse: relazione a distanza

Quello che mi piace dei cimiteri sono le storie raccontate. A Montparnasse ci sono gli artisti della mia epoca, Simone de Beauvoir, prima di tutti, ma anche Ionesco, Beckett, Man Ray che non abbiamo mai trovato. E poi ci sono tutti gli altri.

Une seule personne manque et toute semble depeuplé. Una sola persona manca e tutto sembra deserto.

Isis ha 28 anni, come te l’anno scorso, quando ti ho conosciuto. Jo ne ha sette di più. La famiglia di lei lo chiama “son compagnon” perché non sono sposati, perché per loro Isis non sarà mai grande. Anche se ogni estate vanno a trovare la famiglia di lui, in Brasile. Quanti aerei in una storia a distanza. Transtlantica, per giunta. Volo AF447 Rio-Parigi 31 maggio 2009: cosa si dicono due amanti in volo? Dormono uno sull’altra, guardano i film tenendosi per mano…

Certo come altro morire se non tornando a casa, insieme?

To D. A woman, my friend and inspiration

Nomina uno sbaglio e D l’ha fatto.

La mia amica D che ha vissuto cento vite, non se ne rende conto ed ha ancora entusiasmo per trovarne una nuova.

D dalla vita ha avuto tutto: un intelligente senso dell’umorismo, la capacità di suscitare simpatia negli altri. Alta, bionda e colta ha avuto uomini interessanti di ogni tipo.

D comincia una nuova vita presto, dopo essere stata infermiera, scrittrice, segretaria, amministratrice universitaria, assistente personale dell’uomo che fondò la Magnum, insegnante di inglese e guida turistica, terapista, dopo aver vissuto in California e in Canada, dopo aver realizzato il sogno di vivere a Parigi, dopo aver creduto di perdere tutto, anche la testa, ha una nuova casa, una nuova città, la vita numero centouno.
Le manca solo di scrivere un romanzo della sua vita, e mi chiedo se non potrei farlo io al posto suo.

Quando un giorno siamo andate al mercato a Batignolles D tremava, perché le vertigini le impedivano di stare in piedi dritta. D mi ha insegnato l’espressione “to sleep oneself’s way through -country-” che mi fa morire dal ridere. D ha corretto cento lettere di motivazione per lavori che in fondo non volevo fare. Un giorno mi ha detto che non c’era niente di male a curarsi un male qualunque che si trova in testa nel modo in cui si curano gli altri: con le medicine e la terapia.

D è legata irreversibilmente agli eventi più importanti della mia vita negli ultimi anni. Era un mercoledì sera, passavo da casa sua dopo la piscina con un panino col salmone, abbiamo parlato sul divano comodo del fotografo noventenne di cui sopra. Eravamo tristi entrambe a trentanni di distanza.
La mattina dopo, coi capelli ancora voluminosi ho incontrato Orso, irreversibilmente. Un mese dopo, io e D organizzavamo una cena a casa sua, D non sapeva perché avessi tanta fretta di andare via: Orso mi aspettava a Odeon a mezzanotte.

D attraversa di nuovo l’Oceano, verso la vita numero centouno. Per la centodue, magari, la sua vita sarà una storia.

Il film di Natale, ovvero pandoro farcito di bosco ed egoriferimenti

English recipe at the bottom!

Per qualche ragione che mi è sconosciuta il mio blog non è accessibile oggi ed alcune foto non si modificano. Mi piacerebbe dire che è per troppo traffico, ma dubito.

La mia maratona cinematografica di Natale è stata stranamente statunitense e non ha incluso alcuna fabbrica di cioccolato.
Julie and Julia parla di Julie, una scrittrice intelligente e promettente che arriva a trent’anni chiedendosi dove siano finite tutte le sue promesse. Siccome è appassionata di cucina per riprendere la sua vita in mano si mette a scrivere un blog provando tutte le ricette della famosa Julia Child.
Julia Child nella seconda metà del ventesimo secolo insegnò la cucina francese agli americani, dopo aver vissuto col marito adoratissimo a Parigi per anni.

Io sono una scrittrice intelligente, ho un Orso amatissimo, un passato a Parigi, promesse ancora più pesanti delle valigie che mi porto sempre dietro ed una passione per le torte.
Come Julie sono talmente brava che niente sembra mai abbastanza per meritare di essere portato a termine. Julie decise di scrivere un articolo al giorno e mise un countdown sul suo blog.
Sto cercando di trovare lo stesso countdown, se qualcuno mi può aiutare prometto una fetta di torta. Per me ho scelto quattro articoli e due ricette al mese. Perché? Perché non vivo in un film americano: nel mondo dove gli appartamenti sono piccoli e si fa l’amore sopra le lenzuola i giorni sono composti di 24 ore soltanto.

Ieri ho imparato che non sono egoista, nemmeno egocentrica: sono ego riferita. Credo che questa parola nuova servirà un po’ a tutti quelli della generazione boomerang dei tardo ventenni. Non vogliamo tutto per noi, non pensiamo solo a noi stessi, ma pensiamo che tutto il mondo abbia a che fare con noi, sia nostra responsabilità, colpa o merito.

Ma cosa ve ne importa a voi del mio riferimento? A voi interessa il pandoro farcito per stupire amici e parenti al cenone di capodanno. Sarete mica anche voi un po’ ego riferiti?

Ingredienti
Un pandoro
400 ml di panna fresca (cominciamo a ragionare). Se usi le bombolette chiudi il browser, faremo a meno di te.
Una vaschetta di lamponi, una di more, una di mirtilli, una di fragole (secondo disponibilità e portafogli)
Zucchero a velo
E basta!

Questo dolce serve principalmente a due cose: mangiare tanta panna e stupire i commensali.

Tagliare il pandoro ORIZZONTALMENTE in sei fette spesse. Le fette verranno quindi a forma di stella, così:

Schiacciarle con un mattarello, facendo attenzione a non rovinare le punte (sembra un tutorial di acconciatura!) e ricoprirle di zucchero a velo. Tostare le fette in forno per qualche minuto.
Nel frattempo lavare e asciugare i frutti di bosco, tagliare le fragole a spicchi. Montare la panna a freddo con le fruste elettriche o a mano con la forza motrice dei sensi di colpa per aver mangiato troppo. Ricomporre il pandoro posando una fetta di pandoro, uno strato di panna, frutti di bosco a pioggia, una fetta di pandoro, panna…
Posare la panna abbondantemente con una spatola da pulire con le dita. Continuare fino all’ultimo strato.
Coprire con l’ultima fetta di pandoro, decorare con zucchero a velo, panna e fruttini.

Perché bisogna pulire la spatola con le dita? La risposta a breve in video!

Ingredients
Un pandoro (Italian tipical Christmas cake, in England you can find it in the supermarket around Christmas)
400 ml fresh cream (for whipping!)
A small box of strawberries (150gr), one of raspberries, one of blueberries

Icing sugar
Simple, isn’t it?

The purpose of this cake is twofold: to make a big impression on your guests and to eat a lot of cream while preparing it!

Cut the pandoro in six star-sections (that means you have to cut it horizontally) See picture above.
Press the stars with a rolling pin (please correct me, it is the first time I use this word) with  care for keeping their shape.
Cover them with icing sugar and toast them in the oven for a few minutes. In the meantime, wash and dry the berries, cut the strawberries.
Whip the cream, yes ALL the cream, with your kitchen robot or take the occasion to exercise after indulging in food over Christmas…
Re-compose the cake as in the picture, starting with the base, the biggest slice etc… Alternate the layers like this: slice of pandoro, whipped cream, berries (mixed), slice of pandoro and so on.
Be generous with the cream, and clean the palette knife with the finger.
Cover the last slice with sugar and decorate with cream and berries (be creative!)
Why you should clean the palette with your finger? The answer soon in a video!

Now that I publish in English… Nigella watch your back!

Pronti, partenza…

Da domani le storie continuano dall’altro lato della Manica! Wish me luck!

Home 2: vicini di casa

Nel quartiere latino, a metà strada fra i bar degli studenti ed i monumenti, c’è un piccolo centro di igiene mentale dove si dispensano medicine ma anche alloggio e terapie. Quando si dice che uno farebbe follie per abitare in centro.
Vivere accanto ad un centro di igiene mentale rimette tutto in prospettiva.
Ho due amici li’, CamiciaBlu e Guillame. CamiciaBlu lo conosco da due anni ma è troppo timido per dirmi il suo nome, è stato il primo a salutarmi nel quartiere, quando ho traslocato ormai più di due anni fa. Una volta in cui ho osato rivolgergli la parola ho scoperto che abita lì per un po’, finché non si sistema. Fuma e beve coca cola a tutte le ore, talvolta lo incontro al mattino prestissimo, sempre con la sua camicia azzurra. Conosce il volto dei miei amici, sa che la domenica corro perché il mercato sta per chiudere. Ha visto tutto il mio guardaroba. Sente la mia voce arrivare forte in italiano dall’ultimo piano, sa che stavo da sola, ha visto Orso portare le sue pesantissime valigie e quando ci vede uscire dal portone insieme cerca di sgattaiolare via, quasi la nostra relazione fatta solo di bonjour, bonsoir, mille volte al mese sia una liaison clandestina.
Guillame assomiglia al Re Leone, ma i suoi denti hanno il colore della sua pelle per troppa poca cura. Mi sorride sempre, a priori, in anticipo. Lo incontro una volta sul boulevard saint germain, trovarci al di fuori dei nostri metri di vicolo ci rende amici, abbiamo qualcosa in comune, il vicolo che si inerpica verso il Pantheon, non siamo normali passanti.
Gli chiedo cosa fa, della giornata e della vita, Guillame era insegnante in Martinica, ma un giorno, dice, ha “peté les plombs” ha dato fuori di matto, capita, dice ancora sorridendo. Certo che capita Guillame. Dice che sono gentile perché lo tratto come chiunque altro. Gli chiedo dove andrà in vacanza. Quest’anno non ci va, ma dice orgoglioso, risparmia perché l’anno prossimo andrà in Martinica. Ci tiene a precisare che “Vengo qui a prendere le medicine, ma la terapia la faccio fuori, privatamente”. Anni fa avrei considerato tanta confidenza fuori luogo ma ora ne sono contenta e onorata. So che chi non si nasconde guarisce. Che essere onesti è l’unico modo per non tormentarsi più per cio’ che non si è né si vuole essere. Mi fa ancora due domande e cio’ che gli rispondo all’ultima, gli stampa un sorriso diverso, lungo, sincero e soddisfatto.
Cosi’ mi immagino che tenga un diario e nel diario dica che nell’appartamento di fronte, quello dove pagano l’affitto per venti metri quadri (sono loro i pazzi, questi parigini adottivi!) c’è una giovane donna bella (eh si!) e sincera che inciampa sui tacchi. Lei mi crede quando le dico che andro’ in Martinica il prossimo anno. E cosi’ ci credo un po’ di più anch’io.
Mi faccio coraggio e le chiedo se vuole andare a prendere un caffé un giorno, dice un forse poco convinto che suona come un no, mannaggia, mi tratta davvero come uno “normale”. Oggi sono un parigino che abita in centro, che abborda le straniere e si fa dire puntualmente di no. Oggi sono uno come gli altri. Et ça fait du bien.
Le ho chiesto cosa facesse in giro un venerdi’ mattina. Non mi riguarda affatto ma lei mi risponde ugualmente. Alla sua risposta sorpreso sorrido, sinceramente. Sono contento che altri la pensino come me, che solo chi non si nasconde guarisce.
Ma cosa mi ha detto, non vi riguarda proprio.

Festival degli errori

Mi avranno sentita? I miei vicini, l’Ecole Normale Superieure di Parigi, organizzano un festival dedicato all’importanza… degli errori!

http://festival2010.paris-montagne.org/